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Il Museo di Biologia Marina "Pietro Parenzan" costituisce un luogo in cui il visitatore può venire a conoscenza dei risultati delle ricerche svolte nel campo della biologia marina dai ricercatori che lavorano nel laboratorio di Zoologia e Biologia Marina dell'Università del Salento. Tali risultati, mediante un opportuno lavoro di semplificazione, sono esposti nel museo a corredo dei reperti e richiamano l'attenzione del visitatore sulle principali problematiche di salvaguardia dell'ambiente marino.
Nel Museo però si conducono anche studi strettamente correlati alla Museologia, come visitors studies e valutazione di allestimenti ed attività educative.
Le attività di ricerca nell'ambito della Zoologia e Biologia marina possono essere distinte in due periodi: quello che si identifica con il lavoro svolto dal Prof. Parenzan, dalla fondazione sino al 1986, ed il periodo dal 1987 ad oggi, sotto la guida del laboratorio di Zoologia del Dipartimento di Biologia dell'Università di Lecce. Il Prof. Parenzan ha esplorato il piano abissale del Mar Ionio, ha realizzato una "Carta Ecologica" dei mari pugliesi ed ha redatto una "Carta d'identità delle conchiglie del Mediterraneo".
Notevole impulso ha avuto la ricerca con il passaggio della Struttura all'Università. Sono stati condotti studi di sistematica, biologia ed ecologia di idroidi, copepodi e policheti, ricerche che hanno visto una fase applicativa in chiave ecologica nello studio delle relazioni morfo-funzionali tra l'ambiente pelagico e quello bentonico e, in chiave di tutela dell'ambiente marino, negli studi sulla ricolonizzazione degli ambienti litorali rocciosi desertificati in seguito alla raccolta del dattero di mare.
Sono stati prodotti numerosi lavori scientifici e divulgativi.
Nel corso degli ultimi 10 anni presso la Stazione si sono svolte numerose tesi di laurea e di dottorato. Queste tesi hanno riguardato le principali linee di ricerca sviluppate presso il Laboratorio di Zoologia e la Stazione di Biologia Marina, dell'Università di Lecce; in particolare lo sviluppo di biocenosi di substrato duro, nel quadro della linea di ricerca sulla risposta delle comunità bentoniche agli stress antropici, i cicli vitali e le interazioni tra pelagos e benthos, ed altri aspetti dell'ecologia dei mari salentini.
Le spedizioni abissali
A partire dagli anni '50 il Prof. Parenzan iniziò uno studio della fauna abissale dello Ionio.
Una prima crociera fu compiuta nel 1959 a bordo del rimorchiatore "Titano" della Marina Militare, quando egli era ancora in servizio presso l'Istituto Sperimentale Talassografico di Taranto. Furono condotte poi altre tre crociere abissali riprese negli anni '60 dalla neo-istituita "Stazione di Biologia Marina del Salento". Lo scopo era approfondire lo studio degli aspetti biologici dei piani batiale ed abissale del Mar Ionio dei quali mancava alcun tipo di informazione a fronte degli studi oceanografici e chimico-fisici. Le crociere interessarono i fondali del Mar Ionio posti tra i 100 e oltre i 4200 m. I campionamenti furono effettuati tramite draga e portarono alla raccolta di policheti, molluschi (scafopodi, gasteropodi, bivalvi), crostacei (decapodi), echinodermi (oloturoidi, echiuridi, echinidi, asteroidi), che furono affidati all'analisi di specialisti. I dettagli delle crociere abissali sono stati illustrati dal Prof. Parenzan in una nota pubblicata su Thalassia Salentina (1970).
Oltre alle nuove segnalazioni le crociere abissali hanno anche permesso di rinvenire specie di molluschi nuove per la scienza, determinate dal Prof. Di Geronimo. I risultati di tali spedizioni hanno portato il Prof. Parenzan a proporre la revisione del sistema batiale, "considerando anche per il Mediterraneo un piano abissale (oltre i 3000 metri) e lasciando come extra-mediterraneo solo il piano adale per le profondità superiori ai 5000-6000 metri, quindi per le fosse oceaniche, con fauna qualitativamente povera e presenza di batteri barofili".
La Carta dei fondali marini pugliesi
La Carta dei fondali marini pugliesi è il risultato di oltre 2000 dragaggi effettuati lungo i 760 km di costa che vanno da Metaponto a S. Maria di Leuca e da qui a Lesina.
Il Prof. Parenzan vi riporta l'esistenza di una quarantina di diverse biocenosi, di cui circa venti più importanti per estensione e organismi presenti. Tra queste spiccano quelle di fondo ad alghe fotofile, a Ulva lactuca, a Cladophora prolifera, a Caulerpa prolifera, a Cystoseira, a zosteracee, a Posidonia. La carta biocenotica si inserisce in "Puglia Marittima", l'opera principale del Prof. Parenzan pubblicata nel 1983 che rappresenta il prodotto di 20 anni di lavoro lungo tutta la costa della Puglia.
La "Carta d'identità delle conchiglie del Mediterraneo"
La "Carta d'identità delle conchiglie del Mediterraneo" realizzata dal prof. Parenzan è, al pari di altre sue opere, enciclopedica per la raccolta di dati e informazioni. Il suo fine è quello di offrire agli interessati, studiosi e semplici appassionati, delle schede descrittive utili al riconoscimento delle specie e delle varietà. Quest'opera ha visto la luce tra il 1970 e il 1976 ed è organizzata in tre volumi per un totale di oltre 800 pagine con circa 1700 disegni. Il primo volume è dedicato ai gasteropodi e agli scafopodi; sono descritte circa 800 specie e oltre 600 varietà, per un totale quindi di 1400 schede descrittive molto ricche di dati anatomici, morfologici e biogeografici. Gli altri due volumi riguardano invece i bivalvi di cui sono descritte circa 420 specie.
L'idea del Prof. Parenzan era quella di fornire una "carta d'identità" di tutte le conchiglie del Mediterraneo il che, a suo stesso dire, è risultato impossibile. Il suo lavoro di ricerca è stato però molto minuzioso e lo ha portato a reperire materiale da moltissime spiagge mediterranee in Francia, sul Mar Nero, in Spagna oltre che naturalmente nella sua Puglia, tanto che le 800 specie descritte coprono la quasi totalità dei gasteropodi allora conosciuti per il Mediterraneo. Una menzione particolare meritano i disegni, tutti fatti a mano dallo stesso Prof. Parenzan.
Zoologia e sistematica
Descrizione di nuove specie
Molte sono le specie e le varietà nuove per la scienza descritte dal Prof. Parenzan durante la sua attività presso la Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo. Molti altri Autori hanno invece dedicato al Fondatore della Stazione alcune delle specie da loro descritte che, a tutt'oggi, ne portano il nome. In molti casi si tratta di esemplari derivanti dai campionamenti condotti dallo stesso Prof. Parenzan anche nei mari pugliesi. Anche le attuali linee di ricerca condotte presso la Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo, che riguardano prevalentemente i gruppi zoologici degli idrozoi (Cnidaria), dei copepodi (Arthropoda, Crustacea) e dei policheti (Annelida) hanno portato alla descrizione di nuovi taxa.
Biologia ed ecologia degli idrozoi
Gli idrozoi sono cnidari prevalentemente marini caratterizzati da un ciclo vitale comprendente polipi fissi al substrato e meduse libere nella colonna d'acqua. Per la classificazione di questi organismi è indispensabile la ricostruzione del ciclo vitale, pertanto le indagini di campo vengono affiancate da osservazioni condotte su allevamenti in laboratorio degli stadi di polipo e di medusa, e questa metodica ha portato a descrivere per la prima volta i cicli vitali di numerose specie. Gli studi di sistematica ed evoluzione sono stati accompagnati a studi di natura ecologica in vari ambienti: le falesie rocciose, le grotte sottomarine, le barriere coralline, le praterie di Posidonia, i substrati artificiali. In tutti gli ambienti studiati, gli idroidi si sono rivelati particolarmente abbondanti ed hanno mostrato un'alta diversità. L'idroide Turritopsis nutricula ha rivelato una straordinaria possibilità di transdifferenziamento invertendo il ciclo vitale e tornando dopo la riproduzione sessuale da uno stadio adulto ad uno stadio post-larvale. Attualmente si tratta del primo organismo conosciuto capace di invertire il proprio ciclo vitale. Praticamente come se una farfalla tornasse allo stadio di bruco! Questa straordinaria scoperta ha avuto un grande riscontro dagli organi di stampa e televisivi che hanno subito ribattezzato questa specie la "medusa immortale". Si tratta senza dubbio di esagerazioni "divulgative" ma quello della T. nutricula è un fenomeno che riveste grande interesse non solo per la biologia generale e dello sviluppo, ma anche perchè potrebbe costituire un modello sperimentale per la comprensione dei meccanismi molecolari che regolano il differenziamento cellulare. Basti pensare allo sviluppo dei tumori: anche per questo fenomeno alla base c'è un transdifferenziamento di cellule che tornano alla fase "giovanile" di rapida proliferazione.
Biologia ed ecologia dei policheti
I vermi policheti (Annelida, Polychaeta) popolano gli ambienti salmastri o di acqua dolce, ma la maggior parte è marina. Molti sono sedentari e vivono all'interno del sedimento o in tubi fissati al substrato e altre sono vagili; solo un ristretto numero vive libero nella colonna d'acqua. Ad oggi il ciclo vitale è conosciuto solo nel 4% circa delle specie di policheti, le conoscenze sono frammentarie e la maggior parte degli studi riguarda solo le prime fasi di sviluppo. I contributi originali apportati finora allo studio dei cicli vitali dei policheti riguardano molte famiglie. La riproduzione dei policheti è stata inoltre oggetto di revisione, sottolineando le carenze nelle conoscenze di certi aspetti dei cicli biologici dei policheti. Gli studi di sistematica sono stati accompagnati a studi di natura ecologica in quanto le strategie riproduttive rappresentano anche una delle principali forme di adattamento. I cicli vitali costituiscono un importante strumento ecologico che ci può far comprendere quanto l'ambiente influisca sull'evoluzione delle specie, e ci possono aiutare a collegare le strategie di adattamento delle specie ai vari ambienti. In tutti gli ambienti studiati i policheti si sono rivelati particolarmente abbondanti ed hanno mostrato un'alta diversità. La specializzazione e plasticità fanno di questo gruppo un utile strumento per una valutazione dello stato generale degli ambienti. I policheti si sono infatti dimostrati buoni indicatori ecologici e descrittori di gradienti ambientali.
Biologia ed ecologia dei copepodi
I copepodi calanoidi sono dei piccoli crostacei e sono tra gli organismi più abbondanti dello zooplancton marino. Pur svolgendo un ruolo fondamentale nel funzionamento dell'intera biosfera sono ancora poco studiati ed il ciclo vitale completo è stato descritto solo per circa il 10% delle specie conosciute. Le specie costiere delle aree temperate sono spesso caratterizzate da ampie fluttuazioni numeriche stagionali e possono addirittura risultare assenti dalla colonna d'acqua durante i periodi avversi. Per spiegare tale fenomeno un gruppo di ricerca della Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo ha lavorato sull'ipotesi che alla base di tali fluttuazioni ci fosse la capacità di tali organismi di produrre stadi di resistenza per superare i periodi sfavorevoli. Tali stadi di resistenza si accumulano nei sedimenti delle aree a minore idrodinamismo e, al sopraggiungere delle condizioni idonee, schiudono dando vita agli stadi "attivi" planctonici. La messa a punto di tecniche per l'allevamento di copepodi in laboratorio ha permesso di descrivere, per la prima volta, cicli vitali e produzione di uova di resistenza da parte di questi organismi. La possibilità di interrompere il ciclo vitale con lo stadio di resistenza rappresenta una conversione nello sviluppo geneticamente controllata, le uova di resistenza possono inoltre favorire il superamento di barriere geografiche (rappresentate da condizioni ambientali avverse all'esistenza degli stadi attivi) e rendersi responsabili della distribuzione ampia e tipicamente discontinua delle specie lagunari. La produzione delle uova di resistenza per le specie dello zooplancton costiero, insieme a quella di cisti per le specie del fitoplancton, offre una nuova chiave di lettura della dinamica del plancton che si aggiunge a quella classica dei cicli biogeochimici ed apre un capitolo (tutto da scrivere) sui flussi di energia che intercorrono tra pelagos e benthos.
Cicli vitali e interazioni tra pelagos e benthos
Info
Negli ambienti marini costieri le interazioni tra il sistema pelagico e quello bentonico sono molto forti e rappresentano un fattore determinante per la struttura e la produttività di tali ecosistemi. Secondo l'ecologia marina "classica" queste interazioni sono quasi esclusivamente di tipo biogeochimico con i due domini legati principalmente da flussi di energia e materia. Dal 1991 presso il Laboratorio di Zoologia dell'Università di Lecce e la Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo è stato avviato uno studio delle interazioni "biotiche" tra pelagos e benthos. Il programma di ricerche, svolto in collaborazione con l'Istituto Sperimentale Talassografico del CNR di Taranto, si basa sullo studio dei cicli vitali degli organismi che, secondo l'ipotesi generale del progetto, potrebbero costitutire il principale "link" tra i due domini.
Dinamica del plancton marino costiero
Lo studio è iniziato con la ricerca di una spiegazione alle ampie fluttuazioni stagionali di abbondanza presentate da molte specie planctoniche delle aree marine costiere. Ciò è particolarmente evidente nelle comunità fitoplanctoniche che generalmente mostrano due "picchi" di abbondanza, in primavera e in autunno. Il modello classico per la spiegazione di tale dinamica si basa sulla disponibilità dei nutrienti e sulle condizioni ambientali (luce e temperatura): quando queste ultime diventano favorevoli e in presenza di adeguate concentrazioni di nutrienti hanno luogo imponenti fioriture di fitoplancton seguite da improvvisi aumenti di densità anche dello zooplancton. Così la sopravvivenza sarebbe affidata a quei pochi individui capaci di sopravvivere a condizioni ambientali sfavorevoli con ovvie conseguenze di natura genetica. Secondo una visione più moderna un ruolo importante viene svolto dagli stadi di resistenza (cisti) che, prodotti sul finire della stagione favorevole e depositati sui sedimenti, vengono risospesi insieme ai nutrienti. La specie quindi non scompare dall'ambiente ma si "trasferisce" dal plancton al benthos per poi ritornare a popolare la colonna d'acqua con la risospensione e la schiusa delle cisti. Questo flusso di biodiversità tra pelagos e benthos è un altro esempio di interconnessione funzionale tra i due domini che, pertanto, non possono essere considerati come indipendenti e studiati separatamente come entità discrete.
La presenza di stadi di resistenza nel ciclo vitale è molto diffusa tra le specie planctoniche; ad esempio, tra i dinoflagellati, uno tra i principali taxa del fitoplancton, circa il 15% delle specie produce cisti. Questa percentuale è sicuramente destinata ad aumentare in relazione al progredire degli studi sui cicli vitali. Infatti, solo per poche specie si conosce il ciclo e per molti stadi di resistenza ritrovati nei sedimenti marini non è ancora stata stabilita la corrispondenza con la forma attiva. Solitamente lo stadio di resistenza, o "cisti", è differenziato dal punto di vista morfologico, fisiologico e funzionale rispetto allo stadio vegetativo o adulto. La morfologia degli stadi di resistenza segue dei canoni abbastanza ripetitivi, nel senso che si possono distinguere poche morfologie fondamentali (sferica, ovoidale, peridinioide) arricchite però da diversi tipi di ornamentazioni, quali sculture e processi superficiali, che portano ad una straordinaria varietà morfologica. Nei metazoi (ad es. nei copepodi planctonici e nei rotiferi) gli stadi di resistenza sono costitutiti da uova diapausali all'interno delle quali l'embrione è "congelato" senza che avvenga morfogenesi e sintesi di DNA, RNA e proteine. Dal punto di vista morfologico le uova di diapausa sono sferiche o ovoidali con una spessa parete solitamente ricoperta da processi spinosi o colonnari. Per tutti gli stadi diapausali il periodo di dormienza è scandito in due fasi: una refrattaria a qualsiasi stimolo esterno che può avere durata variabile da poche settimane a diversi mesi, a seconda della specie, e una in cui le condizioni ambientali favorevoli (ad es. il fotoperiodo, la temperatura, la disponibilità di nutrienti o di prede) innescano il meccanismo di schiusa.
Per valutare l'importanza della connessione funzionale e strutturale tra il dominio bentonico e quello pelagico é stato avviato un programma di ricerche. Dopo una serie di prove preliminari per mettere a punto le metodiche di isolamento ed analisi delle cisti accumulate nei sedimenti è stata avviata una prima valutazione qualitativa e quantitativa della "banca delle cisti" presente nei diversi ambienti, cominciando con il Mar Piccolo di Taranto e continuando con il porto di Brindisi, gli stagni costieri di Acquatina (Lecce) e del lago costiero di Butrinto (Albania); zone confinate, quindi, in cui le fluttuazioni stagionali degli organismi planctonici sono particolarmente evidenti. Si è scoperto che le cisti prodotte dal plancton si accumulano nei sedimenti raggiungendo densità molto elevate: per quanto riguarda il Mar Piccolo di Taranto, ad esempio, nei primi 10 cm di sedimento sono state stimate fino a 150 milioni di cisti per metro quadro di fondo. E' stata anche analizzata la struttura della banca delle cisti presente nei sedimenti dell'Adriatico settentrionale durante la crociera oceanografica "ELNA 04" (Eutrophication Limits of Northern Adriatic) a bordo della N/o Urania. Tra gli scopi della crociera c'era quello di investigare circa le cause dei fenomeni distrofici legati all'eccessiva proliferazione di microalghe per i quali l'Adriatico era diventato tristemente famoso. Infine, sono stati analizzati alcuni campioni di sedimento raccolti nel 1993 in due stazioni del Mar Tirreno, rispettivamente al largo di Punta Ala e a sud di Orbetello (Grosseto). Confrontando le abbondanze riscontrate nelle aree confinate con quelle rilevate in Adriatico e nel Tirreno è stata confermata l'importanza dei bacini confinati come aree di accumulo di cisti e quindi di "riserve di biodiversità". In questa ottica e sulla base dello studio della "banca delle cisti" riscontrata, l'Adriatico settentrionale può essere considerato come un bacino confinato su larga scala, anche in virtù delle basse profondità e del limitato idrodinamismo.
L'ipotesi dell'interconnessione "biotica" tra pelagos e benthos è stata testata nel Mar Piccolo di Taranto. Sulla base di uno studio pilota è stato avviato un monitoraggio biennale del plancton nel Mar Piccolo di Taranto, in modo da poter seguire la dinamica tanto degli stadi attivi che delle cisti. Pertanto, è stato adottato un metodo di campionamento "integrato" della colonna d'acqua e dei sedimenti. Una prima conclusione di questo studio è che per studiare il plancton è necessario ... studiare anche il benthos! In altre parole, per quanto preliminari, questi risultati confermano l'esistenza di un importante collegamento funzionale tra i due domini che non può essere trascurato negli studi ecologici. Ad esempio nei modelli di dinamica degli organismi planctonici, finora basati solo sulla disponibilità dei nutrienti e sulle condizioni ambientali, sarà necessario tenere conto delle storie vitali degli organismi.
Per fare questo è necessario campionare in maniera integrata acqua e sedimenti superando la compartimentazione pelagos/benthos. Questi due domini non sono indipendenti e non possono essere studiati separatamente. Accanto al concetto della supply-side ecology, usato per spiegare la persistenza delle comunità bentoniche, recentemente Marcus e Boero hanno introdotto il concetto della supply-vertical ecology, per spiegare la persistenza delle comunità planctoniche sulla base del movimento da/verso il benthos delle cisti.
L'integrazione dell'ecologia del rifornimento laterale con quella del rifornimento verticale supera in maniera definitiva la tradizionale separazione dei due domini pelagico e bentonico. Questa divisione era in effetti già indebolita dal concetto di meroplancton costituito dagli stadi pelagici di animali bentonici o nectonici che trascorrono, quindi, in sospensione nella colonna d'acqua, una parte del loro ciclo vitale. E anche la definizione di oloplancton, a seguito della scoperta di stadi bentonici (le cisti) anche nel ciclo di organismi classicamente definiti come oloplanctonici, necessitava di una correzione. Per distingure gli oloplanctonti "veri" dalle specie con alternanza di stadio adulto planctonico e stadio "larvale" bentonico (uova o cisti) Belmonte et al. (1995b) hanno proposto il concetto speculare di merobenthos, per indicare appunto gli stadi bentonici di quegli organismi il cui adulto è planctonico.
Marcus e Boero (1998) hanno completato questo quadro indicando lo stadio planctonico o bentonico preceduto dal prefisso mero (meroplancton e merobenthos) e aggiungendo un riferimento allo stadio del ciclo vitale (adulto o larvale). Questo porta a definire come:
1) Adulto/merobenthos lo stadio adulto bentonico delle specie con stadio larvale planctonico (meroplancton larvale, corrispondente al classico "meroplancton");
2) Adulto/meroplancton lo stadio adulto planctonico delle specie con stadio larvale bentonico (merobenthos larvale).
Da tutto quanto detto emerge come sia fondamentale allargare gli orizzonti delle conoscenze attuali per arrivare a comprendere in maniera esaustiva i fattori che determinano la dinamica delle comunità planctoniche nei bacini costieri. Le domande cui si dovrà tentare di dare una risposta nel prossimo futuro sono :
1. Quali sono i meccanismi fisiologici che regolano la durata della fase di resistenza? La biochimica e la fisiologia delle cisti sono ancora pressocché inesplorate; questi processi influenzano la longevità delle cisti e di conseguenza le possibilità di un futuro reclutamento dai sedimenti, da cui il loro ruolo nel determinare la composizione e la struttura dei popolamenti planctonici.
2. Gli stadi di resistenza sono soggetti a predazione? Risposte a questo problema avrebbero una importanza notevole in quanto non solo fornirebbero un ulteriore strumento nello studio della dinamica del meiobenthos, ma anche in quella del plancton, supponendo, ad esempio, una predazione differenziale da parte della meiofauna sulle cisti.
3. Qual è l'apporto energetico che gli stadi di resistenza offrono alle comunità bentoniche? In termini di abbondanza gli stadi di resistenza eguagliano la meiofauna, cosicchè il meiobenthos temporaneo potrebbe costituire una inesplorata fonte di energia.
4. I canyon costieri possono funzionare da accumulatori e distributori di stadi di resistenza? Osservazioni preliminari hanno mostrato che i canyon costieri, posti lungo la scarpata continentale, possono svolgere una funzione analoga a quella degli ambienti confinati, dove le cisti si accumulano in acque profonde e quindi, grazie ai fenomeni di upwelling, vengono "pompate" verso le acque superficiali rifornendo di cisti il sistema planctonico costiero.
5. Quale è il significato evolutivo della presenza delle cisti nel ciclo vitale? Pur rappresentando tasselli dello stesso quadro questi argomenti sono molto diversificati e rendono necessario l'utilizzo di approcci sperimentali altrettanto diversi con una conseguente maggiore richiesta di risorse. Tuttavia si tratta di far luce sul funzionamento di uno dei comparti più produttivi dell'intera biosfera e quindi altrettanto elevata è la fiducia di trovare adeguati finanziamenti per tali ricerche che vedono la SBM di Porto Cesareo all'avanguardia nel mondo.
L'impatto della pesca del dattero di mare
Info
Uno dei problemi portati alla luce negli ultimi dieci anni dalla Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo è stato la valutazione dell'impatto provocato dalla raccolta del dattero di mare. Questo mollusco costituisce una pietanza tradizionale delle zone costiere del Salento dove, nonostante i divieti di pesca, detenzione e consumazione (Decreto n. 401, 20 agosto 1988, del Ministero della Marina Mercantile e successive proroghe), è, purtroppo, disponibile in quasi tutte le pescherie e ristoranti. Lithophaga lithophaga, è questo il suo nome scientifico, è un bivalve filogeneticamente molto vicino ai comuni mitili. E' presente lungo le coste del Mediterraneo, dove vive all'interno di gallerie scavate nella roccia calcarea per mezzo di secrezioni ghiandolari. Raggiunge le massime densità (fino a 300 ind/m2) entro i primi 5 m di profondità ma è comunque presente fino a 20-25 m. L'inclinazione della roccia sembra essere un fattore importante per questi mitilidi che preferiscono le pareti verticali. La crescita del dattero è estremamente lenta poichè avviene attraverso vari stadi interrotti da fasi di riposo: è stato stimato che per raggiungere la lunghezza di 5 cm siano necessari 15-35 anni. Dato il particolare habitat di L. lithophaga la sua raccolta comporta la distruzione degli strati di roccia superficiali, ciò si traduce nella asportazione di tutti gli organismi sessili che vivono sulla roccia lasciandola completamente desertificata. L'attività di raccolta viene operata in immersione da subacquei che adoperano particolari martelli riuscendo ad asportare fino a 15-25 kg di datteri durante una immersione di 3-4 ore. Sulla base delle densità massime dei datteri si stima che per un piatto di "linguine ai datteri" (che contiene 15-20 individui) venga distrutta roccia con una superficie pari a quella di un quadrato compreso tra 20x20 e 60x60 cm. Una cena per dieci persone costa all'ambiente fino a più di 3 metri quadri di substrato roccioso. Nonostante i divieti la pesca del dattero di mare non si è ridotta, continuando ad essere alta la sua richiesta. Anzi, l'aumento del prezzo del dattero, provocato dal "rischio" della raccolta, ha reso tale attività più redditizia incoraggiando anche i "non-professionisti" alla raccolta dei datteri di mare.
Campagne di monitoraggio della costa
Al fine di valutare l'impatto che tale pesca ha sulle comunità bentoniche costiere la Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo, in collaborazione con l'Istituto Sperimentale Talassografico del CNR di Taranto (ISTTA-CNR), ha realizzato tre ispezioni della costa salentina. La prima ispezione è stata condotta nel luglio 1990 lungo i 210 Km di costa tra Taranto e Torre dell'Orso (Otranto, Lecce). La seconda si è svolta nel luglio 1992 estendendo la costa ispezionata fino a Torre S. Sabina (Brindisi) coprendo l'intera penisola salentina con un totale di 300 Km di costa. Infine, la terza, svolta nel maggio 1997, ha interessato la costa dell'intera Puglia da Taranto a Peschici (Foggia) (circa 700 Km); il monitoraggio della parte adriatica (da Peschici a Otranto) è stato condotto nell'ambito del PRISMA II, progetto di ricerca per la salvaguardia del Mare Adriatico. La valutazione dell'estensione del danno provocato alle coste rocciose dalla pesca del dattero di mare è stata effettuata mediante prospezioni subacquee eseguite lungo transetti perpendicolari alla costa, posizionati a distanza di 2 km circa l'uno dall'altro. La metodica di rilevamento e l'analisi dei dati sono state descritte in tre distinti lavori.
Impatto della "predazione" umana
I dati raccolti hanno evidenziato un gravissimo stato di depauperamento delle biocenosi bentoniche costiere pugliesi e, in particolare, del Salento a causa di un'attività di pesca che prosegue nonostante sia vietata per legge. Data la lenta crescita del dattero di mare i pescatori sono costretti a spostarsi sempre in zone non ancora sfruttate; la desertificazione è iniziata nella fascia più superficiale ed è proseguita successivamente sulle rocce più profonde. Dal confronto tra la percentuale di fondale desertificato riscontrato nei diversi survey è stato stimato che lungo la costa salentina la distruzione delle comunità bentoniche procede alla velocità di 12 km/anno! La distruzione delle biocenosi bentoniche costiere di fondale roccioso costituisce un impatto che ha indubbie ripercussioni su ogni altra forma di sfruttamento delle risorse biologiche. In questo caso, infatti, le attività di pesca non insistono su una sola specie bersaglio, ma comportano l'azzeramento totale dell'habitat in cui il dattero vive. Le comunità bentoniche rappresentano fonte di cibo e di riparo dai predatori anche per tanti altri organismi non propriamente bentonici, quali pesci, molluschi e crostacei. Quindi, è ragionevole ipotizzare che la drastica riduzione delle comunità bentoniche abbia ripercussioni anche su altre attività economiche quali la piccola pesca costiera. Inoltre, la desertificazione dei fondali determinata dalla raccolta del dattero di mare provoca una perdita del valore paesaggistico, ricreazionale e turistico della fascia costiera. Per questi motivi la pesca del dattero di mare lungo le coste pugliesi può essere considerata una vera e propria catastrofe ambientale tanto che il primo studio approfondito di tale fenomeno (Fanelli et al. 1994) è stato riportato dall'Encyclopaedia Britannica Yearbook 1995 come uno dei fatti più rilevanti nel campo della biologia marina nell'anno 1994 (Naylor 1995).
Le prossime attività di ricerca tenteranno di rispondere ai seguenti quesiti:
1) Quanto la desertificazione dei fondali contribuisce ad un impoverimento della fauna ittica costiera? L'ipotesi da testare è che la distruzione dell'habitat, riducendo gli spazi vitali delle specie ittiche, diminuisce i rendimenti della pesca costiera. Attraverso il censimento visuale dell'ittiofauna in siti desertificati e in siti ancora integri si potrà quantificare il grado di "attrattività" di un fondale depauperato nei confronti di specie oggetto di altre forme di pesca. A tale attività seguirà un censimento del pescato ottenuto da operatori che agiscono in siti desertificati ed in siti integri.
2) Quali sono i tempi di rinnovamento della risorsa-dattero? Anche se si ribadisce ancora come tale problema sia di minore importanza rispetto a quello legato alla distruzione dell'ambiente, è comunque necessario studiarlo perchè di grande peso sull'opinione pubblica. Tale valutazione verrà effettuata valutando i tassi di reclutamento e cercando di stabilire la reale velocità di crescita del dattero utilizzando in esperimenti di campo specifici marcatori della crescita già utilizzati per altri mitili.
3) Cosa fare per sensibilizzare consumatori e pescatori? E' auspicabile la collaborazione con Enti Pubblici e Privati per la preparazione di supporti didattici e divulgativi per la sensibilizzazione dei consumatori, per avere a medio e lungo termine un diverso indirizzo della richiesta del mercato, con uno scoraggiamento economico al proseguimento della pesca del dattero di mare.
Aspetti bionomici della Costa Salentina
A partire dalla Conferenza sulla Biodiversità tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, si sono moltiplicati i convegni e le pubblicazioni scientifiche sull'argomento tanto da poter affermare che "va di moda" parlare di biodiversità, intesa come varietà delle forme di Vita sulla Terra. E' altrettanto vero che è difficile conservare ciò che non si conosce e dunque diventa prioritario intensificare le indagini conoscitive anche al fine di operare delle scelte e stabilire correttamente le strategie di sviluppo compatibili con la salvaguardia ambientale. Proprio per venire incontro a tali esigenze, recentemente è stata prodotta una sintesi delle ricerche condotte negli ultimi dieci anni dal Laboratorio di Zoologia e dalla Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo (Dip. di Biologia, Università di Lecce) in collaborazione con l'ISTTA-CNR di Taranto, con la realizzazione di:
a) una carta ecologica del Salento ionico, che descrive l'aspetto dei vari fondali, la presenza e l'estensione delle varie biocenosi presenti nei primi 10 m di profondità; lo studio di questa area, effettuato in immersione, ha consentito la descrizione dettagliata di un ambito poco considerato dal grande lavoro del Prof. Parenzan che operava per lo più distante dalla costa;
b) una serie di 66 itinerari subacquei;
c) una documentazione fotografica delle specie riscontrate.
Tale sintesi rappresenta un punto di partenza sullo status della biodiversità di quest'area che potrà essere di aiuto per orientare indagini ecologiche successive, per individuare altre zone di particolare interesse naturalistico e, in generale, per fornire un aiuto alla gestione ecocompatibile delle risorse ambientali costiere. Le comunità più frequentemente riscontrate lungo la costa del Salento sono raggruppabili in 4 categorie principali:
a. popolamenti fotofili di substrato duro;
b. popolamenti sciafili di substrato duro;
c. fanerogame marine; d. biocenosi sabulicole.
Popolamenti fotofili di substrato duro
Nelle zone soggette ad un regime idrodinamico elevato comprese nel primo metro di profondità si osserva una dominanza del genere Cystoseira, spesso in associazione col genere Laurencia. Talvolta, a questa stessa profondità, è stata individuata una massiccia presenza di mitili e, in zone ristrette e a moderata eutrofizzazione, di alghe verdi appartenenti ai generi Ulva e Chaetomorpha (popolamenti nitrofili). Dove l'idrodinamismo è evidentemente meno accentuato, su rocce più profonde ma ben illuminate, le comunità bentoniche sono caratterizzate da associazioni ad alghe fotofile dominate dalle alghe verdi appartenenti ai generi Acetabularia e Dasycladus, dalle alghe brune dei generi Padina, Dictyota, Dictyopteris e dalle alghe rosse dei generi Gelidium e Liagora. Lungo tutte le coste salentine l'associazione ad alghe fotofile più diffusa è quella ad alghe corallinacee e ricci ("facies ad Arbacia"), molto comune a tutte le profondità e localmente estesa fin in superficie che presenta alte densità di ricci di mare (Arbacia lixula eParacentrotus lividus). Gli organismi sessili dominanti sono le alghe rosse a tallo calcareo incrostante (Lithophyllumspp., Lithothamnium spp.) accompagnate da pochi altri taxa capaci di resistere alla forte pressione di pascolo da parte dei ricci. Proprio la raccolta del dattero di mare provoca una estensione di questa biocenosi anche alle pareti rocciose verticali che, in condizioni naturali, presentano comunità maggiormente strutturate. Alle alghe coralline incrostanti spesso si accompagna la dominanza della spugna Chondrilla nucula, il cui successo è dovuto alla capacità di riproduzione per frammentazione mediante "propaguli" di dimensioni tali da evitare la predazione da parte del riccio. Localmente sono state rilevate comunità dominate da antozoi coloniali quali la Cladocora coespitosa, le cui formazioni ricordano quelle di altri madreporari delle barriere coralline, e la Maasella edwardsii, che produce colonie incrostanti.
Popolamenti sciafili di substrato duro
Negli anfratti, nelle grotte e, in generale, in condizioni di luce attenuata, dominano i popolamenti sciafili. Tra le alghe tipiche di questi ambienti vanno segnalati i generi Flabellia, Halimeda, Peyssonnelia, mentre la componente animale è caratterizzata dalla dominanza di antozoi (Parazoanthus axinellae, Astroides calycularis, Leptosammia pruvoti), briozoi (Schizobrachiella sp., Myriapora truncata) e spugne (Aplysina sp., Ircinia sp., Petrosia sp., Crambe crambe, Spirastrellasp., Agelas oroides). Il coralligeno è la tipica biocenosi di ambiente profondo dove la luce penetra moderatamente. Tipica della comunità è la fitta copertura biologica, con organismi incrostanti che coprono densamente i substrati rocciosi, sovrapponendosi fino a nascondere completamente il substrato su cui originariamente si sono insediati. Tra gli organismi strutturanti dominano: tra le alghe Mesophyllum lichenoides, Pseudolithophyllum expansum, Palmophyllum crassum, Peyssonnelia rosamarina, tra le spugne Axinella cannabina, Calix niceaensis, Spirastrella sp.,Clathrina sp., Cliona spp., tra i briozoi Myriapora truncata, Sertella sp.. Questa biocenosi può formarsi in una zona compresa tra i 10 e gli 80 m di profondità dove le condizioni di luce sono ancora tali da rendere possibile una crescita massiva delle alghe incrostanti; la fascia di passaggio fra l'ambiente fotofilo e il coralligeno è detta precoralligeno, le cui caratteristiche sono simili a quelle del coralligeno, ma la cui copertura e concrezionamento sono meno fitti e sviluppati. Le caratteristiche formazioni di coralligeno che si estendono quasi ininterrottamente lungo tutta la costa pugliese risultano particolarmente sviluppate nella zona di Porto Selvaggio e da S. M. di Leuca fino ad Otranto.
Una delle comunità più importanti presente lungo le coste del Salento è la prateria di Posidonia oceanica. E' bene precisare che, pur essendo comunemente definita "alga", la Posidonia è una pianta; infatti ha un cormo differenziato in radici, rizoma (fusto) e foglie ed è capace di riproduzione sessuale con la formazione di fiori, frutti e semi. Posidonia oceanica può colonizzare substrati sia sabbiosi che rocciosi e, a seconda della limpidezza delle acque, può spingersi fino a quaranta metri e più di profondità. I rizomi crescono tanto in senso orizzontale che verticale rispetto al substrato, formando un complesso intreccio di parti vive e morte che prende il nome di matte. La densa vegetazione formata da queste piante ha funzioni insostituibili nel sistema costiero:
1)stabilizzazione del substrato attraverso il sistema radicale che costituisce una trappola per il sedimento;
2)protezione della costa dai fenomeni erosivi grazie all'azione smorzante del moto ondoso da parte delle foglie;
3)elevata produzione di materiale organico e di ossigeno;
4)fonte di cibo diretta ed indiretta e punto di partenza di complesse reti alimentari;
5)habitat d'elezione e/o nursery per numerose specie anche di notevole importanza commerciale.
Data la limitata profondità (10 m circa) raggiunta nelle prospezioni effettuate, praterie vere e proprie sono state individuate solo nell'area di fronte a Gallipoli (Isola di campo, Isola di S. Andrea, Punta del Pizzo) e a Punta Ristola. Tuttavia lungo tutta l'area considerata sono stati frequentemente osservati ciuffi sparsi e chiazze di ampiezza limitata (da 2 a 10 m2). Segni di matte morta di Posidonia sono stati riscontrati a Torre Suda. Questa situazione può testimoniare la presenza, in passato, di una prateria più estesa di quell'attuale.
L'ambiente delle spiaggie sommerse è molto comune lungo il Salento: le rocce con la profondità cedono il passo alla sabbia che forma una fascia pressochè continua e che a tratti si insinua verso la costa arrivando fino in superficie a costituire delle bellissime spiaggie. Questi ambienti sono caratterizzati dall'incoerenza del substrato costituito da particelle sciolte e mobili. Gli animali che abitano questi ambienti apparentemente monotoni e omogenei non hanno la possibilità di rifugiarsi in anfratti come avviene negli ambienti rocciosi, ma possono scavare tane per affossarsi nei sedimenti. Poiché il moto ondoso smuove e rimescola questi fondali, gli organismi che li abitano devono in qualche modo ancorarsi al substrato o seppellirvisi dentro, per evitare di essere trasportati dalle onde. I fori nella sabbia rappresentano la prova evidente della presenza di animali infossati. Tra questi ci sono sicuramente i vermi policheti e i molluschi bivalvi. Questi ultimi creano una caratteristica e riconoscibile coppia di buchi attraverso cui i due sifoni, utilizzati tanto per la respirazione che per l'alimentazione, comunicano con l'esterno.
Sviluppo di biocenosi di substrato duro
Recupero naturale delle biocenosi
Contestualmente alla valutazione del danno causato dalla pesca del dattero, la Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo ha avviato una serie di ricerche per poter fornire indicazioni sulle possibilità di ripristino degli ambienti compromessi da questa attività. Queste informazioni sono di particolare importanza gestionale in quanto ancora oggi ci sono forti pressioni affinchè la pesca del dattero venga riaperta anche se regolamentata. Da un punto di vista puramente scientifico il diffuso fenomeno della pesca del dattero ha offerto l'opportunità di studiare la risposta degli ecosistemi marini al disturbo antropico e di studiare le modalità di sviluppo delle comunità bentoniche. Lo studio condotto dai ricercatori della SBM di Porto Cesareo è stato avviato nel 1989 e consiste nel monitoraggio fotografico di una serie di 9 stazioni fissate in siti danneggiati da pescatori di datteri all'interno di una piccola baia lungo la penisola de La Strea (all'interno della Zona A della attuale Riserva Marina di Porto Cesareo).
Il monitoraggio, che è ancora in corso, è iniziato con una frequenza quindicinale (1989-91) e poi è proseguito con cadenza mensile. Attualmente è stata realizzata una "banca immagini" costituita da oltre 2300 diapositive. Nel periodo in esame si riscontra un leggero aumento della diversità, sia come numero di specie che come Indice di Shannon (H'). La variabilità dei dati raccolti rende necessaria una approfondita analisi con metodiche statistiche. A giugno '99 si è concluso il 10° anno di rilevamento di questa serie storica che resta l'unico esempio sulle comunità bentoniche di substrato duro subtidale. Per quanto riguarda le strategie di colonizzazione prevalgono quelle delle forme incrostanti, quali le alghe coralline e brune, e la colonizzazione dell'interno della roccia, ad esempio ad opera delle spugne clione. In tutti i casi si tratta di specie pioniere che riescono a resistere all'azione di brucatura dei ricci. Un'altra strategia di colonizzazione è quella di alcuni animali coloniali laminari che si insediano all'interno dei fori liberi dei datteri per poi proseguire la espansione sulla superficie esterna di tali fori. Questa strategia è stata documentata in una delle stazioni fisse ad opera della spugna Crambe crambe e del briozoo Schizobrachiella sanguinea. Altro esempio di come sia importante un "rifugio" per i propaguli è rappresentato dalla azione protettrice della spugna Chondrilla nucula che agisce da centro di ricolonizzazione consentendo ad altre specie di utilizzare gli spazi vuoti presenti tra i suoi "individui".
Assenza di riconolizzazione: alla riceca delle cause
I primi risultati del monitoraggio condotto nelle stazioni fisse di Porto Cesareo mostrano che in quasi tutti casi i processi di ricolonizzazione sono molto lenti, se non assenti, e che quindi l'impatto della pesca del dattero si estende nel tempo. I risultati delle ispezioni mostrano che questa è la tendenza generale lungo tutto il Salento, con un aumento della desertificazione totale dovuto alla mancata ricolonizzazione delle chiazze desertificate e ad alla loro ulteriore estensione. Per spiegare questo fallimento della ricolonizzazione sono state indagate sia le fasi pre-insediamento che post-insediamento e sono state avanzate due ipotesi:
1) mancato apporto di propaguli o incapacità di insediamento degli stessi;
2) elevata mortalità dei propaguli e degli stadi giovanili a causa di alti tassi di predazione.
Entrambe le ipotesi, che non necessariamente si escludono a vicenda, sono state testate ed i risultati confrontati. Per verificare l'influenza della ricchezza della comunità sul reclutamento, una zona gravemente danneggiata (Porto Cesareo) è stata confrontata con una integra (Santa Caterina, Lecce). I risultati indicano che non ci sono differenze nell'apporto di propaguli: a Porto Cesareo arriva e si insedia un altissimo numero di propaguli e, comunque, tale rifornimento è paragonabile a quello che si verifica a Santa Caterina. Esiste quindi una potenziale capacità della comunità alla ricolonizzazione. Dal confronto delle specie reinsediate risulta che nei due siti si realizza un insediamento di propaguli sostanzialmente simile sia dal punto di vista qualitativo che nelle abbondanze. Osservazioni condotte lungo la Penisola Salentina hanno evidenziato l'esistenza di vaste aree desertificate popolate da alte densità di ricci di mare (Paracentrotus lividus e Arbacia lixula). Con la loro attività di brucatura questi echinoidi sono in grado di influenzare profondamente lo sviluppo delle biocenosi bentoniche. Per testare l'ipotesi della predazione dei ricci su propaguli e stadi giovanili bentonici quale causa del fallimento della ricolonizzazione, nei pressi delle stazioni fisse sono stati condotti esperimenti di ingabbiamento monitorati tramite rilevamenti fotografici. Le gabbie, costituite da una intelaiatura in ferro impediscono ai ricci di pascolare nella zona sottostante. Questi esperimenti hanno dimostrato che i ricci hanno un forte impatto tanto sulle alghe che sugli animali. Parallelamente sono state condotte analisi dei contenuti stomacali di entrambe le specie di echinoidi e monitoraggi delle popolazioni. Confrontando i dati di ricoprimento delle gabbie con quelli delle stazioni risulta evidente che nel processo di ricolonizzazione i ricci di mare giocano un ruolo chiave, predando in modo indiscriminato tutte le forme di dispersione che arrivano nelle aree desertificate, e determinando la mancata ricolonizzazione delle coste rocciose del Salento. Gli unici fattori che li ostacolano sono l'interazione con alcuni fattori fisici (ad es. l'orientamento del substrato e, probabilmente, l'idrodinamismo) e biotici (la presenza della spugna Chondrilla nucula).
A parte le alghe calcaree incrostanti, l'unico organismo che riesce a superare l'azione di brucatura dei ricci è la spugna Chondrilla nucula. Come già detto essa è in grado di colonizzare direttamente i substrati denudati mediante la produzione di propaguli asessuali di dimensioni tali da sfuggire la predazione dei ricci. La persistenza delle chiazze di Chondrilla e l'aumento della diversità in tali chiazze, osservati con le sequenze fotografiche, hanno permesso di ipotizzare che la spugna protegge il substrato dall'azione dei ricci, facilitando il reclutamento. Si è a lungo cercato di trovare il modello secondo il quale avviene questa facilitazione al reclutamento da parte di Chondrilla ed è stato formalizzato il modello di Cooperazione che si articola nelle seguenti fasi:
1. un disturbo forte e frequente (in questo caso la pesca del dattero di mare) apre uno spazio libero;
2. si insediano specie (in questo caso C. nucula) che tollerano alti livelli di disturbo (in questo caso l'azione degli echinoidi);
3. tali specie persistono e si sviluppano creando nuovi microhabitat protetti (in questo caso gli spazi tra i corpi delle spugne);
4. in tali microhabitat si insediano altre specie, a formare biocenosi più complesse.
Tutte queste ricerche, condotte dalla Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo in collaborazione con l'Istituto Sperimentale Talassografico del CNR di Taranto, si inseriscono in uno studio a lungo termine sulla risposta degli ecosistemi marini al disturbo. In questa ottica la raccolta del dattero di mare ha fornito l'opportunità per testare una serie di ipotesi di ecologia generale. Dal punto di vista applicativo i risultati hanno evidenziato l'estrema gravità del fenomeno sia in termini di diffusione spaziale del danno alle comunità bentoniche lungo la costa pugliese, che di assenza di fenomeni di resilienza. L'unica forma di ricolonizzazione è rappresentata dalla facies a C. nucula che si sviluppa attraverso modalità formalizzate in un nuovo modello di sviluppo di comunità detto di "cooperazione". Anche in questo caso non si può certamente parlare di un ritorno alle condizioni iniziali ma di una nuova struttura della comunità. Pertanto, il prossimo obiettivo di ricerca sarà quello di valutare l'impatto che tali modificazioni delle comunità bentoniche causate dalla pesca del dattero hanno sulle altre componenti dell'ecosistema, (ad esempio sui pesci) e le conseguenze per le attività umane (ad es. la piccola pesca costiera).
Le grotte marine del Salento
A partire dal 1997 i ricercatori della Stazione di Biologia Marina di Porto Cesareo hanno avviato una serie di ricerche ecologiche sulle grotte marine sommerse del Salento. Il Progetto di ricerca è stato finanziato dalla Provincia di Lecce nell'ambito dell'Accordo di Programma con l'Università degli Studi di Lecce. L'ambiente delle grotte sommerse è molto frequente lungo le coste salentine data la natura carsica della regione. Le aree speleologiche più interessanti da un punto di vista subacqueo sono la zona del Capo d'Otranto, la zona che da Leuca si estende sino a Castro Marina, sul Canale d'Otranto, e la costa Neretina (Baia di Uluzzu-Porto Selvaggio) sul mar Ionio. I tratti costieri sono caratterizzati da scogliere che proseguono sotto il livello del mare con scarpate sommerse. Lungo il tratto di costa Otranto-Leuca sono frequenti le grotte semisommerse che, talvolta, presentano ingressi sufficientemente ampi da poter essere ispezionate, per la loro porzione emersa, anche a bordo di imbarcazioni. In altri casi, come anche nella Baia di Uluzzu, sulla costa Neretina, le grotte sono completamente sommerse e la loro ispezione è dunque possibile solo in immersione con autorespiratore ad aria. Nel 1998 la SBM di Porto Cesareo, in collaborazione con il Gruppo Speleologico Neretino (G.S.N.), ha intrapreso un'indagine biologica di una delle più grandi cavità completamente sommerse della costa salentina: la Grotta delle Corvine, situata nella Baia di Uluzzu (Comune di Nardò). Lo studio della grotta ha consentito di descrivere i popolamenti bentonici in essa presenti, e la loro variazione sia spaziale (dall'ingresso al fondo di grotta), sia temporale (nel corso di un intero anno solare). I risultati preliminari sono stati presentati al XXIX Congresso della Società Italiana di Biologia Marina tenutosi ad Ustica dal 15 al 20 giugno 1998, mentre i risultati dell'intero anno sono stati riportati in un Rapporto Tecnico presentato alla Provincia di Lecce.
Da un punto di vista ecologico le grotte marine sono particolarmente interessanti perchè offrono la possibilità di studiare gli effetti della luce sulla distribuzione degli organismi bentonici; infatti in questi ambienti si realizza una progressiva riduzione dell'intensità di illuminazione mentre non varia la "qualità" delle radiazioni, come invece avviene con la profondità.
Indagine esplorativa di alcune grotte sommerse lungo la costa del Karaburun
(Albania Meridionale)
Nell’ambito della cooperazione scientifico-culturale che da alcuni anni vede il coinvolgimento delle Università di Lecce (I) e Vlorë (AL), sono stati impostati una serie di interventi finalizzati sia al miglioramento delle relazioni intercorrenti che alla definizione di protocolli di azione comuni per migliorare le conoscenze sull’ambiente costiero e pelagico del Canale d’Otranto.
Il progetto di particolare rilevanza n.7, di sostegno alla “Istituzione di un Dipartimento di Ecologia presso l’Università di Vlorë” (IDEUV), del Protocollo di Cooperazione Scientifico e Culturale tra Italia e Albania (con il contributo finanziario del MAE italiano) si inserisce in una strategia più generale di promozione dell’ambiente marino costiero, a fini gestionali e produttivi che devono essere indispensabile sostegno allo sviluppo e al consolidamento dell’economia albanese.
Il progetto IDEUV è attualmente affiancato dal progetto 72AM2 del P.C.S.C. Italia-Albania a sostegno della “Istituzione di una Rete di Stazioni sul Canale d’Otranto, per lo studio della Biologia Marina” e dalla richiesta inoltrata al Governo Albanese, da parte dell’Università di Vlorë, riguardante l’istituzione di un corso di laurea triennale in “Scienze Applicate all’Ambiente Costiero” con indirizzi Ecoturistico, Acquacolturale, e della Pesca Costiera.
L’Università di Lecce, dal canto suo, è peraltro pronta ad operare sul piano della formazione e dell’aggiornamento dei docenti albanesi, contestualmente allo studio ecologico del mare costiero, con una serie di progetti di grande rilievo all’interno del programma INTERREG III Italia-Albania il cui inizio dovrebbe essere imminente.
La indagine descrittiva qui presentata ha costituito un esempio di organizzazione e realizzazione di uno studio condotto sia per identificare le caratteristiche ecologiche di tratti della costa albanese che per fare esperienza con le metodiche e i materiali da adoperare, e la tempistica da rispettare al fine di ottenere risultati affidabili.
L’ambiente di grotta marina è stato scelto per testare le capacità organizzativa ed esecutiva dei ricercatori, perché caratteristico di un tratto della costa ionica albanese, ma anche perché non sono noti studi pubblicati a riguardo soprattutto delle porzioni sommerse.
La penisola Karaburun, nell'Albania meridionale è una lingua di terra, di circa 15 Km di lunghezza, che chiude il Golfo di Vlorë.
La natura prevalentemente carsica della roccia e l’assenza di una fascia pianeggiante costiera, depongono a favore dell’esistenza di cavità che si aprono sopra e sotto il livello del mare.
A questo si associa la presenza di risorgive di acqua dolce che, avendo eroso la roccia calcarea, ha contribuito direttamente alla formazione di grotte e caverne anche di notevoli dimensioni.
L'impeto delle mareggiate, che in determinate condizioni di vento dai settori occidentali si abbattono con violenza sulla costa, ha contribuito, nel corso del tempo, ad aprire tali vie ipogee ed "allargarle" provocando frane e crolli delle parti più esposte alla forza del mare.
Una sommaria perlustrazione dell'area con imbarcazione, consente di individuare, con la semplice osservazione dell'alto profilo della costa, la presenza di selle e incavi morfologici che denunciano l’esistenza di cavità sottostanti.
L'interpretazione della geomorfologia del territorio è stata, dunque, fondamentale per l'individuazione di probabili siti ipogei sommersi da esplorare.
Nel Museo si svolgono numerose ricerche, tutte volte al miglioramento dell'offerta e della soddisfazione del pubblico. Di seguito gli ambiti in cui si svolgono questi studi.
Solitamente, prima dell'allestimento di una sala o di un angolo espositivo, si dovrebbero valutare le aspettative ed anche le conoscenze dei visitatori scelti come target per il futuro allestimento. Questo tipo di studio prende il nome di front-end evaluation e viene condotto mediante diversi strumenti: questionari, interviste, focus group, allo scopo di comprendere da un lato cosa il pubblico desidera sapere sull'argomento, dall'altro l'effetto che quel determinato allestimento sortirà. Condurre questo tipo di indagine è vantaggioso non solo dal punto di vista dell'efficacia dell'allestimento, ma anche dal punto di vista economico in quanto può evitare inutili sprechi di denaro allestendo qualcosa che non è gradito o compreso appieno.
L'allestimento della Sala dello Squalo elefante è stato supportato dal primo studio di front-end evaluation condotto in Italia in un museo scientifico. Un altro esempio simile è quello che è stato condotto in attesa di poter allestire una sala dedicata alla collezione malacologica.
La sala dello Squalo elefante
Contestualizzazione del Museo nel territorio che lo ospita
Il Museo di Biologia Marina "Pietro Parenzan" si trova, per espressa volontà del suo fondatore, a Porto Cesareo che è un paese i cui residenti sono pescatori. Si è avvertito il bisogno di far capire ai pescatori che il museo non deve incutere soggezione, anzi deve essere un luogo strettamente legato alla cultura locale, di cui deve raccontare le storie, in questo caso le storie della pesca, della loro pesca. Questo obiettivo è stato raggiunto con un allestimento partecipato: la Sala della pesca. Questa sala è stata progettata e realizzata in collaborazione con i pescatori, i quali hanno fornito le notizie riguardanti i modi e i tempi della pesca e i periodi di maggiore pesca in relazione alle specie, ed hanno anche portato i loro attrezzi che sono stati esposti nell'allestimento della sala. Il risultato di questo lavoro è stato da un lato una sala in cui la cultura locale è bel rappresentata e può essere ben compresa dai visitatori del museo, dall'altro l'acquisizione di un pubblico nuovo per il museo: i pescatori, che fino ad allora costituivano un "non pubblico".
La Sala della pesca
Nel museo si svolgono attività educative volte soprattutto alla salvaguardia dell'ambiente marino. Periodicamente gli interventi educativi che hanno luogo nel museo sono sottoposti a valutazione sia in relazione all'acquisizione dei contenuti, sia in relazione al cambiamento di opinione e di atteggiamento nei confronti delle tematiche affrontate.
Nel museo si conducono studi sulle aspettative del pubblico. Il pubblico dei musei è in genere molto variegato e nel Museo di Biologia Marina "Pietro Parenzan" i visitatori sono in massima parte costituiti dagli studenti di ogni ordine e grado durante l'anno scolastico e dai turisti, in prevalenza rappresentati da famiglie con bambini, durante la stagione estiva. Negli studi condotti si è evidenziato come alle diverse categorie corrispondano diverse aspettative. Questo tipo di ricerche sono importanti per allineare le scelte del museo ai desideri dei suoi visitatori.
Giudizi, consigli e riflessioni dei visitatori
Uno scrigno di notizie su ciò che il visitatore pensa del museo appena visitato è il visitors book, un quaderno dove ciascuno può scrivere liberamente alla fine della visita. Molti visitatori ci scrivono le loro riflessioni, ma anche consigli utili per i museologi che si occupano delle attività allestitive ed educative. Lo studio di questi commenti liberi è complesso, proprio in funzione della loro estrema varietà, ma può costituire un utile strumento per la comprensione dei bisogni del pubblico.
Una pagina del Visitors book
I lavori pubblicati sono nella sezione "pubblicazioni"
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Data ultimo aggiornamento: 16.12.2013